L’agricoltura è considerata un’emettitrice netta di gas serra (GHG), ma sequestra enormi quantità di carbonio nel suolo, nei substrati bioenergetici e nei prodotti alimentari. Il sistema di contabilità globale per l’impatto climatico basato sulla metodologia di valutazione del ciclo di vita (LCA) tiene conto solo delle emissioni e non dell’assorbimento di carbonio, portando alla conclusione che le attività agricole dovrebbero diminuire per mitigare il cambiamento climatico. Questo studio ha considerato un sistema contabile alternativo, il Carbon Capture LCA (CC-LCA), che attribuisce un valore al sequestro del carbonio nei prodotti agricoli.
Valorizzare la cattura del carbonio nella produzione agricola zootecnica
Report, Bresaola, allevamenti intensivi e gli Zebù (che non sono Zebre)
Nella recente trasmissione di Report, Siamo nella ca…, si è parlato degli allevamenti intensivi in pianura Padana, indicandoli come i principali responsabili dell’inquinamento e della diffusione del COVID19. Ci hanno anche raccontato del “problema” Bresaola, una produzione caratteristica IGP Italiana, della Valtellina, notoriamente fatta con carne di Zebù importata dal Brasile. Quale relazione c’è tra le due denunce?
PM10 e COVID19, ALLA RICERCA DEL CAPRO ESPIATORIO
Certo che i media sono incredibili: hanno la capacità in un attimo, nel bene o nel male di diffondere “verità” indiscutibili, ma spesso con metodiche opache. Prendi ad esempio l’ultima questione posta all’attenzione dell’opinione pubblica: la presunta correlazione tra infezione COVID19, il particolato atmosferico PM10 e gli allevamenti in pianura Padana. E’ stato facile creare un nesso di causa effetto, dove l’allevamento è il “capro espiatorio”, cioè la clamorosa causa della pandemia in Italia. E’ facile altrettanto fare ipotesi altisonanti, ammantate da una qualche firma autorevole di professori universitari e qualche medico e il gioco è fatto. Il colpevole è servito sul programma di grande tiratura come Report di ieri sera (13/04/20), che si appoggia come fonte scientifica su un recente studio pubblicato da Società Italiana medicina per l’ambiente. Prima di fare considerazioni sull’opportunità o meno di queste ipotesi, è senza dubbio giusto provare a verificare la fondatezza dello studio e della tesi. Se fosse vero, di fronte ad una pandemia tale, non sarebbe giustificato alcun tentennamento. Ma se fosse tutta una montatura, risulterebbe anche criminale.
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Impianto Biovoltaico, il modello perfetto di economia circolare
Col termine di impianto Biovoltaico intendo definire un impianto a biogas, che, in una logica di energia circolare, funziona esclusivamente senza l’utilizzo di biomasse vegetali, ma solo con reflui zootecnici, preferibilmente provenienti da allevamenti di vacche da latte. E’ quindi un piccolo impianto con una potenza cogenerativa difficilmente superiore a 100 kWe e che di fatto funziona in modo del tutto automatizzato. Il termine biovoltaico infatti riprende idealmente due concetti precisi delle energie rinnovabili. Quello del fotovoltaico, che tramite l’energia solare (Photos) produce energia elettrica (Volt), in maniera del tutto passiva e senza intervento dell’uomo. Nel caso invece del biovoltaico, l’energia si produce dalla parziale trasformazione di materiale organico biologico (Bio) a gas e successiva trasformazione in energia tramite un motore a scoppio (cogeneratore). Anche in questo caso il flusso di energia (potenziale) fluisce senza l’intervento umano, dal liquame depositato in una vasca adiacente all’allevamento fino alla produzione di energia elettrica e calore.
Il controllo di gestione nell’allevamento di vacche da latte: un caso pratico di successo
Sul controllo produttivo negli allevamenti di vacche da latte si sa tutto: quanto produce ogni singola vacca al giorno, la qualità del suo latte, se è gravida o in calore, di quale genealogia è figlia, se conviene trattarla alla messa in asciutta (cellule differenziali). Cosa e quanto mangia, quante le proteine giornaliere, la loro degradabilità, ecc. Poco o nulla invece si sa dell’efficienza economica della mandria, o, per meglio dire,dell’azienda zootecnica.
Energia, ecologia, sostenibilità
Il male oscuro che colpisce gli allevamenti da latte diffusi in particolare nella Pianura Padana si chiama “latte sotto costo”. Da anni, direi da almeno un decennio, il latte che produce un allevamento è venduto all’industria casearia ad un prezzo inferiore a quello di produzione (0,40 euro/litro con un costo di 0,50). Stiamo parlando di un fenomeno che riguarda decine di migliaia di aziende e che muove almeno il 70% del latte italiano e quindi delle conseguenti trasformazioni lattiero casearie del calibro di: Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Provolone, Gorgonzola, ecc. In considerazione poi che il prezzo del latte è in questo momento perfino in calo ed equivarrebbe, calcolandolo con le vecchie lire, al prezzo dei primi anni novanta, è del tutto evidente che siamo di fronte ad una situazione sempre meno economicamente sostenibile. A ciò si aggiunga che le famose quote latte istituite dalla UE nel lontano 1987 e che ponevano un tetto produttivo, cesseranno al 31/03/15. Quindi tutti a produrre ancora più latte? Non pare proprio. La terra disponibile per le coltivazioni è sempre di meno e così anche quella utilizzabile a norma di Direttiva Nitrati per gli spandimenti dei reflui. A fronte di un prezzo del latte così basso, conti alla mano, al produttore non conviene più aumentare la produzione, pena la moltiplicazione delle perdite. Si perché in questo campo di attività economica, l’effetto positivo della così detta economia di scala non funziona tanto bene. Ma allora cosa può fare il “povero” allevatore per sopravvivere come azienda?
La risposta in sé è piuttosto semplice: cambiare approccio.