Col termine di impianto Biovoltaico intendo definire un impianto a biogas, che, in una logica di energia circolare, funziona esclusivamente senza l’utilizzo di biomasse vegetali, ma solo con reflui zootecnici, preferibilmente provenienti da allevamenti di vacche da latte. E’ quindi un piccolo impianto con una potenza cogenerativa difficilmente superiore a 100 kWe e che di fatto funziona in modo del tutto automatizzato. Il termine biovoltaico infatti riprende idealmente due concetti precisi delle energie rinnovabili. Quello del fotovoltaico, che tramite l’energia solare (Photos) produce energia elettrica (Volt), in maniera del tutto passiva e senza intervento dell’uomo. Nel caso invece del biovoltaico, l’energia si produce dalla parziale trasformazione di materiale organico biologico (Bio) a gas e successiva trasformazione in energia tramite un motore a scoppio (cogeneratore). Anche in questo caso il flusso di energia (potenziale) fluisce senza l’intervento umano, dal liquame depositato in una vasca adiacente all’allevamento fino alla produzione di energia elettrica e calore.
Impianto Biovoltaico, il modello perfetto di economia circolare
La caccia alle streghe sul biogas agricolo
La “caccia alle streghe” è un modo di dire molto comune che, in senso figurato assume il significato di persecuzione e/o messa al bando di persone giudicate pericolose sulla base di sospetti, preconcetti, tabù infondati, come accadeva nel medioevo quando le streghe, in realtà solo donne sfortunate, le bruciavano a furor di popolo. Il fenomeno del biogas in Italia pare subire lo stesso tipo d’irrazionale pregiudizio, fomentato da poco chiari interessi verso altre forme di produzione energetica (petrolio, gas), ma soprattutto da ignoranza, da leggersi non solo come mancanza di conoscenza. Come esempio di tale sospettoso approccio propongo un articolo comparso di recente su di un giornale locale Ragusanews, e a firma di Irene Savasta.
Energia, ecologia, sostenibilità
Il male oscuro che colpisce gli allevamenti da latte diffusi in particolare nella Pianura Padana si chiama “latte sotto costo”. Da anni, direi da almeno un decennio, il latte che produce un allevamento è venduto all’industria casearia ad un prezzo inferiore a quello di produzione (0,40 euro/litro con un costo di 0,50). Stiamo parlando di un fenomeno che riguarda decine di migliaia di aziende e che muove almeno il 70% del latte italiano e quindi delle conseguenti trasformazioni lattiero casearie del calibro di: Grana Padano, Parmigiano Reggiano, Provolone, Gorgonzola, ecc. In considerazione poi che il prezzo del latte è in questo momento perfino in calo ed equivarrebbe, calcolandolo con le vecchie lire, al prezzo dei primi anni novanta, è del tutto evidente che siamo di fronte ad una situazione sempre meno economicamente sostenibile. A ciò si aggiunga che le famose quote latte istituite dalla UE nel lontano 1987 e che ponevano un tetto produttivo, cesseranno al 31/03/15. Quindi tutti a produrre ancora più latte? Non pare proprio. La terra disponibile per le coltivazioni è sempre di meno e così anche quella utilizzabile a norma di Direttiva Nitrati per gli spandimenti dei reflui. A fronte di un prezzo del latte così basso, conti alla mano, al produttore non conviene più aumentare la produzione, pena la moltiplicazione delle perdite. Si perché in questo campo di attività economica, l’effetto positivo della così detta economia di scala non funziona tanto bene. Ma allora cosa può fare il “povero” allevatore per sopravvivere come azienda?
La risposta in sé è piuttosto semplice: cambiare approccio.
Con il biogas si semplifica l’uso dei reflui zootecnici
Il 27 novembre è stato approvato in sede di Conferenza Stato-Regioni lo schema di decreto sulla revisione delle norme relative alla gestione degli effluenti di allevamento e sull’utilizzazione agronomica del digestato prodotto dagli impianti di digestione anaerobica. Il decreto attua finalmente l’articolo 52 del “Dl Crescita” (Dl 83/2012) e definisce le caratteristiche e le modalità d’impiego del digestato, equiparandolo ai concimi chimici, nonché le modalità di classificazione delle operazioni dalla disidratazione alla essiccatura. Un altro passo nella giusta direzione per il riconoscimento del digestato quale ottimale concime organico in sostituzione dei concimi chimici (di origine petrolifera…..). Il Comunicato congiunto è frutto di un’approfondita istruttoria, a cui hanno preso parte le Regioni, i Ministeri dell’Ambiente e della Salute e le Associazioni di categoria e conferma quanto già indicato nella normativa dell’agosto 2012. Con esso si guarda al futuro dell’agricoltura in un contesto di rafforzamento della sostenibilità ambientale delle produzioni agricole e alla diversificazione di tipo energetico-rinnovabile delle attività.
Quale futuro per l’agricoltura ?
Per descrivere il disagio economico che sta vivendo da alcuni decenni l’agricoltura, basta prendere ad esempio l’andamento del prezzo del latte pagato al produttore e di latte fresco al consumo :
Nel 1983 il prezzo pagato dall’Industria all’allevatore era in un rapporto di uno a due rispetto a quello al consumo. Non essendoci motivi tecnologici per cui nel tempo tale rapporto non si sia mantenuto, nel grafico si è ipotizzato un andamento teorico del prezzo al produttore, mantenendo il rapporto di uno a due. L’area verde visibile nel grafico è quindi delimitata, inferiormente dall’andamento del prezzo pagato al produttore dal 1983 al 2013 e sopra dall’andamento del prezzo con il rapporto suddetto.
Quest’area rappresenta la perdita di valore tutta a carico del produttore nell’arco degli ultimi 30 anni.
Si noti inoltre, che il di prezzo variato negli anni da uno a due ad oltre uno a tre.
Un altro aspetto interessante è dato dal fatto che Il prezzo al consumo è continuato ad aumentare, mentre quello alla produzione no. Ribadisco che, in questi anni, non sono certo intervenuti fattori che abbiano aumentato di più i costi da parte dell’industria di trasformazione rispetto alla produzione; quindi il mancato reddito da parte dell’allevatore (area verde), dov’è finito ?
Il valore di tale perdita è valutabile in mancati ricavi, che per un allevamento di 200 vacche da latte (1800 t di latte annue) equivale a circa 650.000 Euro per il solo anno 2013.Analogo andamento è riscontrabile anche per altri prodotti agricoli.