Negli anni ’50 eravamo una terra di agricoltori che iniziava a diventare operaia. Poi, nel giro di un paio di decenni è diventata anche d’impiegati. Ai figli degli impiegati era stato previsto e promesso un lavoro creativo, gratificante e non noioso. Tuttavia, complice la crisi economica e l’avvento dell’euro, si sono ritrovati, molto più prosaicamente, senza un lavoro; e siamo ad oggi. Così, come negli anni cinquanta, alcuni emigrano all’estero in cerca di fortuna, altri, aspettano tempi migliori, si sono adattati ai lavori più umili, alcuni però stanno riscoprendo i campi e la terra come professione. Nel 2013, le iscrizioni ai dipartimenti di agraria in tutta Italia sono aumentate del 40%. Nel medesimo anno, il valore aggiunto dell’agricoltura italiana è cresciuto del 4,7%, mentre il Pil italiano cadeva di quasi due punti percentuali. Questo grazie anche all’export agricolo italiano, che è cresciuto del 5%, trascinando anche un certo aumento dell’occupazione.
Dati sorprendenti, questi, ma non certo casuali. Pochi se ne sono accorti, in questi ultimi anni, ma l’agricoltura è una delle poche vere eccellenze che sono rimaste a questo Paese. Secondo l’ultimo rapporto di Fondazione Symbola dedicato all’agricoltura, sono ben 77 i prodotti in cui la quota di mercato mondiale dell’Italia è tra le prime tre al mondo: pasta, formaggi, pomodori, vino, aceto, olio, fagioli. La nostra capacità di primeggiare è figlia, soprattutto, della grande qualità e varietà delle nostre produzioni. Non è un caso, peraltro, che non ci sia agricoltura in Europa e poche al mondo, che abbiano una capacità di generare valore aggiunto quanto quella italiana. Da noi, un ettaro di terra, produce 1989 euro di valore aggiunto: ottocento euro in più della Francia, il doppio di Spagna e Francia, il triplo dell’Inghilterra. Se poi qualcuno è ancora legato ai calcoli astrusi sui gas serra, aggiungo che, la nostra, con le sue 814 tonnellate di gas serra emesse per ogni milione di euro di prodotto, è anche una delle agricolture più “pulite” d’Europa. Molto più di quella inglese, ad esempio, che di tonnellate ne emette 1935, o di Germania e Francia, rispettivamente 1.339 e 1.249. È anche una delle più sicure, nonostante tutto: lo scorso anno, solo lo 0,2% dei prodotti agricoli made in Italy ha presentato residui chimici con valori oltre la norma. Altro dato piuttosto sorprendente è la nostra evidente primazia nell’agricoltura biologica. Nessun Paese Europeo ha tanti produttori quanti ne ha l’Italia, che ne può contare ben 43.852, il 17% di tutti i produttori europei.
Il risultato di quest’eccellenza è il frutto dell’innesto di menti giovani e di pensieri innovativi dentro mestieri antichi. L’intreccio con nuovi saperi e nuove tecnologie sta davvero iniziando a cambiare i connotati all’agricoltura: un tempo agricoltura era sinonimo di coltivazioni con finalità prettamente alimentari, oggi diventa anche un fatto culturale. Tuttavia il rapporto con l’industria e la GDO è ancora il freno economico maggiore. Risulta ancora sproporzionata la forza commerciale ed economica di questi due settori rispetto alla frammentarietà dell’offerta primaria, sia pure di eccellenza. Se da un lato alcune aziende agricole si stanno convertendo, diversificando le produzioni e diventando multifunzionali, dall’altro la stragrande maggioranza degli imprenditori agricoli non ha ancora assunto la coscienza di essere tali. Ci sono grandi opportunità che possono essere sfruttate in campo agro-alimentare, ma è necessario per molti cambiare la mentalità, da meramente produttivistica ad imprenditoriale, che sa sfruttare le opportunità in chiave economica sostenibile. Dalle energie rinnovabili, alla trasformazione e vendita diretta, all’e-commerce, alla didattica e fino all’ospitalità rurale per disabili o anziani.
Il loro potenziale innovativo sta tutto nel mix delle diverse competenze. Sia che si parli di agricoltura per uso alimentare, sia che si parli di bioeconomy, l’Expo 2015 potrebbe davvero essere un trampolino di lancio. Tuttavia manca a livello nazionale una vera strategia d’indirizzo, che, se c’è, pare quanto meno contraddittoria. Si pensi ad esempio al grande rischio connesso all’accettazzione da parte dell’Italia del trattato denominato TTIP, che, ad oggi, imporrebbe proprio l’esatto contrario dei nostri stessi interessi: perdita delle garanzie della tipicità ed appiattimento a favore delle mera industrializzazione e della GDO. L’Expo, al contrario e nonostante gli immensi sprechi e le ruberie che l’hanno macchiata, è una straordinaria occasione per capire se e come potremo declinare le nostre tipicità in un contesto globale che ci pone tante domande e nel quale dobbiamo essere protagonisti coraggiosi. Una su tutte, come si possono sfamare, vestire, riscaldare nove miliardi di persone senza distruggere il pianeta, ma mantenendo un’eccellenza e uno stile italiano.
Forse la nuova agricoltura non salverà solo l’Italia.
Fausto Cavalli